Con la sentenza n. 1335, depositata ieri, 26 gennaio 2016, la Corte di Cassazione ha stabilito che la rinuncia, da parte di un socio, a crediti correlati a compensi di lavoro autonomo presuppone la maturazione e il conseguimento del credito, con ineludibile obbligo di tassazione in capo al socio stesso. La Suprema Corte ha confermato, quindi, sul tema, l’orientamento della prassi ministeriale, riconoscendo la validità della tesi del c.d. “incasso giuridico”.
Nel caso oggetto di pronuncia, l’Ufficio accertatore riteneva che le rinunce alle indennità di fine mandato da parte di due soci-amministratori fossero assoggettabili a ritenuta d’imposta ai fini IRPEF. I giudici in merito, in entrambi i gradi di giudizio, avevano, invece, stabilito che, in mancanza del pagamento, la rinuncia al credito da parte dei soci non assumeva rilevanza fiscale, essendo assimilabile a versamenti a fondo perduto o in conto capitale.
La Suprema Corte ha in primis richiamato la precedente sentenza n. 26842 del 18 dicembre 2014, ad avviso della quale, in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 88 comma 4 del TUIR (che, nel testo allora vigente, escludeva in ogni caso che dovessero considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società), non consente di alterare il regime fiscale – in capo ai soci – del credito che costituisce oggetto di rinuncia.
La norma in esame deve, infatti, essere letta in correlazione con gli artt. 94 comma 6 e 101 comma 7 del TUIR, per effetto dei quali l’ammontare relativo al credito oggetto di rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella società debitrice e non è ammesso in deduzione in capo al socio. Pertanto, “ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali, sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguiti ed utilizzati, sussiste l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare”, con applicazione della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta ai sensi dell’art. 25 del DPR 600/73.
I giudici di legittimità hanno, inoltre, ricordato che, come chiarito dalla prassi (ris. Agenzia delle Entrate n. 152/2002, che ha richiamato le precisazioni già contenute nella precedente ris. n. 41/2001), l’intassabilità della rinuncia ai crediti da parte dei soci si giustificava, in via sistematica, in virtù della cointeressenza del socio-creditore alle vicende della società partecipata. La patrimonializzazione di quest’ultima si riflette, infatti, nell’attivo della partecipante attraverso un corrispondente aumento del costo della partecipazione.
Tanto premesso, la Cassazione afferma che “la rinuncia presuppone, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque «utilizzato», sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia. Consegue quindi che, in caso di compensi di lavoro autonomo spettanti al socio, la rinuncia operata dal socio medesimo presuppone logicamente la maturazione ed il conseguimento del credito vantato, con ineludibile soggezione al regime fiscale conseguente, in capo al socio creditore. Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l’effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione e perciò di generare reddito, che finirebbe per rimanere esente da imposizione”.
Quanto detto si riflette, evidentemente, sugli obblighi di applicazione della ritenuta che competono alla società. La Suprema Corte ha, quindi, confermato quanto precisato dall’Amministrazione finanziaria con la C.M. 27 maggio 1994 n. 73, ad avviso della quale “la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.
Con ciò si voleva evitare che, nei contesti di società a ristretta base azionaria, la società deducesse i costi imputati per competenza nei diversi esercizi e poi beneficiasse, all’atto della rinuncia dei soci a tali redditi, di una sopravvenienza attiva totalmente esclusa da tassazione. In questo senso, si intendeva accertare non tanto la società beneficiaria (che aveva quale “scudo” l’art. 88 comma 4 del TUIR previgente, il quale assicurava la non imponibilità integrale della rinuncia), quanto piuttosto il socio, al quale si sarebbe imputato il reddito, per finzione giuridica considerato per incassato.
A ben vedere, tale orientamento (che, seppur risalente, non è mai stato rettificato) ha alimentato un ampio dibattito in dottrina, suscitando numerose posizioni critiche, con particolare riguardo al fondamento della nozione di “incasso giuridico”, che presuppone la materiale percezione (cui non può essere equiparata la mera rinuncia al credito) del provento da assoggettare a tassazione.
Peraltro, come evidenziato in dottrina, l’orientamento ministeriale appare in contrasto con il vigente ordinamento, secondo cui, nell’ipotesi di redditi tassati per cassa, il presupposto per il sorgere dell’obbligazione tributaria è l’effettiva disponibilità del denaro o del corrispettivo in natura, a nulla rilevando i crediti maturati e non riscossi. Da ultimo, si evidenzia che l’orientamento della Cassazione (che, come evidenziato, si riferisce alle norme vigenti fino al periodo d’imposta 2015) sembrerebbe assumere rilievo anche a seguito delle modifiche apportate dal DLgs. 147/2015 (DLgs. internazionalizzazione) al regime fiscale delle rinunce ai crediti da parte dei soci, posto che, in capo a quest’ultimi, non paiono rinvenirsi novità sostanziali.